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NERO NERISSIMO




NERO NERISSIMO




Dall’inferno, 25 Maggio 2015
A Giorgio
 
Mi hai chiesto più volte di raccontarti tutto, lo hai fatto spesso durante la nostra frequentazione, non ho più motivo per non farlo.
 
Ti dirò la verità, non terrò più nulla per me, saprai finalmente quel che c’è da sapere. Te lo devo, lo devo a un uomo che ha speso gran parte della sua carriera per mettermi in un angolo, senza riuscirci, ma giocando lealmente, tranne qualche piccolo sgambetto, di tanto in tanto.
 
Te lo devo per il rispetto che hai avuto per me, potevi spararmi in faccia mille volte, quando tentennavo per una risposta, prendevo tempo, rielaboravo un piano per crearmi un alibi che reggesse, raccontavo storie che a fatica stavano in piedi, quando assumevo quell’aria spavalda che odiavi.
 
Consideralo il mio regalo di compleanno, ben più di quello che i colleghi ti avranno donato durante le solite noiose cene dei tuoi passati genetliaci.
Lo so che guadagnano poco, i tempi grami si fanno sentire anche nella Polizia, le auto viaggiano con il serbatoio mezzo vuoto, la carta per le fotocopie scarseggia, sempre meno giovani in aiuto, le penne portate da casa, i reagenti della scientifica che tardano ad arrivare.
 
Come pretendevate di prendermi con così pochi mezzi? Conoscevo bene le vostre tecniche, mi bastava poco per non lasciare tracce, mettervi fuori pista o ingannarvi con qualche gioco di prestigio.
Tu lo hai sempre saputo che ero stato io.
 
Eppure qualche errore l’ho fatto, non ve ne siete accorti, non siete stati all’altezza, troppo impegnati a fare chissà cosa o forse vi faceva comodo chiudere un occhio, in fondo facevo il vostro stesso mestiere, eliminavo dalla circolazione i criminali. Tu sei stato l’unico che mi è arrivato vicino, troppo, gli altri brancolavano nel buio; ti sarebbe bastato allungare la mano per prendermi.
 
Avevi mille indizi e non ti sono stati sufficienti per far finire i miei giorni in un carcere, per fortuna che da noi non esiste la pena di morte, altrimenti durante la passeggiata finale non avrei avuto il tempo sufficiente per ricordare tutti i miei morti, uno per uno, i loro volti, chi erano, cosa facevano, perché li ho uccisi.
 
Ti dirò subito una cosa, sono orgoglioso di quel che ho fatto, non provo rimorso né pentimento.
Come potrei, ognuno di noi ha una storia alle spalle, la mia viene da lontano ed è dolorosa e perdona ciò che ho fatto. Forse non sarai d’accordo, un poliziotto come te, integerrimo, leale, amico di tutti, protettore dei deboli, delle donne e dei bambini, ma te lo assicuro, se conoscessi i dettagli ne converresti, ma ora non ho voglia di raccontarteli, mi limiterò a dirti solo alcune cose.
 
Nessun tribunale mi concederebbe delle attenuanti, la giuria si commuoverebbe ai miei racconti, per le mie vittime non certo per me, per quel che ero, per quel che ho fatto e per come l’ho fatto.
La mia faccia da buono, il mio parlare con voce rassicurante, il mio viso con le guance paffute e cadenti nascondono un mostro, tu lo sai.
 
I gesti delicati, non alzo mai la voce, cedo il passo alle signore, mi fermo a guardare i bambini che giocano nei giardinetti: questo non ha fatto di me una persona migliore, mi ha solo permesso di nascondermi meglio.
Però, che brav’uomo, dicevano, guarda come rimane incantato nel guardare le famiglie felici, chissà perché non si è sposato?
 
Te lo dico io, perché a me hanno negato l’infanzia, la spensieratezza di giocare con mio fratello, mi hanno tolto la felicità di chiamare papà e mamma per dirgli “guardate come sono bravo sull’altalena”.
Sto diventando sentimentale, non volevo.
 
Ti ricordi quell’uomo, Filippo qualcosa, per i cognomi non sono portato, al contrario di te che ricordi tutto, nomi, date e circostanze.
La prima volta è stata mentre correvo per il circuito del parco, lo trovavo fermo vicino alla rete di recinzione, sempre poggiato alla sua auto, quando avevo completato il primo giro era ancora lì. E ancora al termine dei giri successivi, a volte dall’abitacolo sbirciava l’area giochi con un binocolo.
Avevo già visto quella scena per non essere preoccupato, segnai la targa dell’auto, “non si sa mai” mi dissi.

Poi scomparve quella bimba con il vestito rosso, ricordi? Se ne parlò molto sui giornali, voi non sapevate dove sbattere la testa, brancolavate nel buio. Io no, perché quando lessi che frequentava quei maledetti giardinetti capii.

Scoprii dove abitava, le signorine della motorizzazione sono gentili, se ci sai fare.

Aspettai che uscisse per il lavoro, entrai in casa con chiavi false, guanti di lattice e soprascarpe da sala operatoria.

Non per niente frequentavo i bar più loschi e le persone più strane, strinsi parecchie amicizie: imparai a rubare un auto, a entrare in un appartamento senza lasciare tracce, ascoltai molte gesta. Mi costò solo qualche bottiglia, spesso erano racconti di imprese improbabili ma tornarono utili.

Chi si vantava di saper uccidere un uomo con qualsiasi cosa, con le mani, con una forchetta, con una cannuccia per bibite, persino con lo sguardo, a sentir loro aprivano serrature come noi tagliamo una mela con il coltello, entravano in casseforti e caveau inespugnabili con la stessa facilità con la quale tagliamo il burro.

In fondo era solo un povero sprovveduto, voleva fuggire, la valigia era pronta, le sue cose impacchettate nelle scatole ancora aperte, il giorno dopo sarebbe stato lontano, non lo avrei permesso.

Trovai delle foto di bambini che giocavano, non solo al parco, ma anche davanti alle scuole, sul marciapiede di fronte alle loro case. Mi sembrò di riconoscere quella bimba, non ne ero certo, mentre non avevo dubbi sul fatto di chi fosse.

Attesi il suo ritorno nascosto dietro il divano, lui sistemò alcune cose, si preparò un panino e si sedette per guardare la tivù.
Mi alzai quel poco che serviva per stringere il suo collo con una corda, mollò la sua cena per cercare di sottrarsi al soffocamento, tossì, non morì per un boccone andato di traverso.

“E ora?” mi chiesi.

Scesi in auto e presi la cerata che avevo acquistato per il patio di casa. Ce lo avvolsi, lo infilai in una vecchia cassapanca mezza vuota che era sotto lo specchio, probabilmente non faceva parte dei suoi beni, ma chi se ne sarebbe lamentato? Per non farlo muovere troppo gli infilai intorno parte delle carte e cianfrusaglie che tirai fuori dalle scatole.

Sopra misi altre cose trovate in giro per la casa e infine dei soprammobili presi dalla libreria quasi vuota. Chiusi il lucchetto che pendeva dagli anelli, alla chiave ci avrei pensato dopo.

Chiamai la ditta dei trasporti, il nome era sulle scatole. L’appuntamento era alle otto del giorno dopo, non mi ero sbagliato. Dissi loro che non potevo essere presente, che avrei lasciato la chiave sotto lo zerbino, che procedessero pure, mi avrebbero trovato al nuovo indirizzo, se ne avessi avuto il tempo. Avevano le chiavi della nuova casa, gli chiesi di confermarmi la destinazione, per essere certo che non avrebbero sbagliato. Mi segnai l’indirizzo. 

Mi raccomandai che la cassapanca e le due scatole con scritto “fragile” fossero trattate con cura, mi risposero che loro trattavano tutto con cura.
Feci i cinquanta chilometri che mi separavano dalla casa che l’uomo non avrebbe mai abitato, la piccola costruzione di legno era isolata, come si addice a un uomo del suo genere. Avevo il cuore in gola, perché allora ancora un po’ ne avevo.

Scesi in cantina, c’era una controparete di cartongesso, la scollai, andava bene per nasconderci il corpo. Sarei tornato con lui per finire il lavoro, al ritorno mi fermai in un ferramenta, avevo bisogno di materiale e di alcuni attrezzi.

La mattina assistetti al trasloco a distanza, quando gli operai se ne furono andati entrai. Strappai il lucchetto, il legno era vecchio, tirai fuori il corpo ancora avvolto, lo portai di sotto, lo misi nell’intercapedine, lo sistemai con della gommapiuma, rimisi a posto la parete, la fissai con molti chiodi, il lavoro era ben fatto.

Sarebbe passato del tempo prima che qualcuno se ne fosse accorto.
Me ne andai, non prima di aver bruciato nel camino le foto fatte da quel maiale.
Lo so, la scomparsa non venne mai denunciata, e poi non sarebbe stato un caso di tua competenza, avrebbero trovato il morto in un’altra regione.

Questa fu la mia prima volta, ero eccitato, mi sembrava di aver fatto qualcosa di grande.
All’epoca non mi ponevo il problema degli interrogatori, mi limitavo a eliminare i mostri, quelli sì che lo erano, poi mi perfezionai, decisi che i genitori avevano diritto di piangere definitivamente e non rimanere in eterno con il dubbio.

Capii subito che avrei dovuto affrontare parecchi problemi ai quali non avevo pensato. Come sbarazzarmi dei corpi: non sempre le circostanze ti aiutano, dovevo studiare meglio il piano, essere più pragmatico, più metodico, darmi delle regole, preparare delle soluzioni alternative, avere un luogo sicuro dove eventualmente ripararmi se le cose fossero andate male.

E quale rifugio era più sicuro del magazzino sfitto sotto casa di un poliziotto. Lo trasformai in un loft, una cella frigorifera nascosta, non si sa mai, mi dissi.

Ero tutto sotto i tuoi piedi, facevo i lavori, non ti sei mai accorto di nulla. Ero lì quando tu non c’eri, non ricordo di averti mai incrociato.
Deve essere frustrante sapere che io fossi l’assassino e non riuscire a provarlo, le sensazioni servono per indirizzarti, ma poi ci vogliono le prove. E tu prove non ne avevi. 

Non che fossi perfetto, ma tu e i tuoi colleghi eravate degli imbranati, quelle poche tracce che lasciavo voi le cancellavate per imperizia, per sbadataggine, quante volte avrai sentito dire dagli uomini della Scientifica “non avete delimitato l’area, avete inquinato le prove” quelle poche volte che ho dovuto togliermi i guanti per finire un lavoro, tu e gli altri avete riempito di impronte il luogo del delitto. A volte ho pensato che lo facevate apposta, a non catturarmi, quasi a volermi sfidare, per vedere di cosa ero capace, per farmi cedere con un crollo nervoso.

Lo sai? Ci sono andato vicino, quella volta che stavo torturando quel tizio che conobbi al Centro vittime abusi familiari. Pensa, ci andò lui, invece che mandarci la moglie e i figli che lui picchiava regolarmente, e non so che altro facesse. La donna finì in coma, i due bambini dopo la guarigione furono affidati a una casa famiglia, lui se la cavò con poco.
 
Uscito dal carcere iniziò a frequentare il Centro, io in quel periodo davo una mano agli operatori, fu facile farsi accettare, di volontari non ce ne sono troppi in giro. Tenevo la contabilità, facevo dei lavoretti. Si presentò come una vittima, lui, non so proprio che balla possa aver raccontato, era lì solo perché cercava soggetti deboli per le sue future avventure, ricordavo il suo volto, anche se passò una sola volta in televisione, per certe cose ho buona memoria.

Le infermiere del Pronto Soccorso sono gentili, se ci sai fare.

Dopo la descrizione che feci, ottenni il nome di questo marito e padre affettuoso che aveva portato la sua famiglia ridotta così dopo un incidente stradale, questo disse.
Lo seguii, indagai, scoprii che non era la prima volta, mandò in ospedale anche la prima moglie, anni prima, era lui, lo chiamai “il mostro di Villanova”.

Ti risparmio i particolari, ti dico solo che era un tipo tosto, mi raccontò tutto, anche più di quel che volevo sentire. Mi rivelò che da giovane era maestro d’asilo e che giocava con le bambine.

«Basta!» gli gridai «non voglio sentire altro» ma lui continuava, mi raccontò altri episodi, particolari e circostanze che mi erano familiari, non ne potevo più, dovevo fermarlo, stava profanando per la seconda volta dei poveri innocenti.

Solo quando gli strappai la penultima unghia delle mani chiese pietà.

Non lo avete mai ritrovato, è sepolto lungo la strada che porta a Capo Leggero, ai margini del bosco. Non lo troveranno mai, ma se fosse, consiglio, per quanto di lui sia rimasto poco, di chiudere gli occhi, non vedreste un bello spettacolo.

Non mi vergogno a raccontarti queste cose, sei mio fratello, anche se proprio al più caro degli amici o a un fratello è più difficile raccontare quel che io ti sto rivelando.
 
Certe cose non si ha il coraggio di dirle neanche in confessione, comunque non ne avrei motivo, ho smesso di credere nel Signore nel momento in cui ho capito che non potevo fidarmi degli uomini.

Quella volta che mi ferii, allora sì che ebbi paura di essere scoperto. Arrivaste che avevo appena girato l’angolo, sottovalutai la reazione di quell’energumeno, si difese, lottammo, tirò fuori un coltello, io il pugno di ferro, mi tagliò la mano, lo picchiai in testa con dei cavalli di ceramica che teneva nel salotto, svenne, sentii delle sirene, non mi persi d’animo, gli tagliai la gola con la sua stessa arma.

Non ebbi il tempo di pulire il mio sangue, se mai fosse stato possibile distinguerlo da quello della vittima.

La prima autopattuglia arrivò che io mi ero appena mischiato alla folla dei curiosi.

Attraverso la finestra si vedeva tutto, ci pensasti tu a confondere le acque, quando entrando, ancora con l’adrenalina a mille per la corsa che facesti per raggiungere la casa, sperando di trovarmi ancora lì, inciampasti e cadesti sui frammenti di un vaso e ti tagliasti, forse per solidarietà nei miei confronti.

Lo so, avrei potuto far di meglio, in fondo ero divenuto più bravo, avevo sempre con me tutto il necessario, avrei fatto sparire il corpo e nessuno si sarebbe accorto di nulla, ma non ce ne fu il tempo, qualcuno chiamò il Pronto Intervento.

Ti guardavo in televisione, mi piacevi, eri convincente, affermavi di essere vicino alla soluzione del caso, che si era trattato sicuramente di un regolamento di conti, che l’assassino aveva le ore contate, le solite frasi fatte, niente di nuovo. Nessun accenno alle perversioni di quell’essere spregevole, ai giochi per bambini che erano in casa, alle videocassette dove si vedevano orrendi spettacoli i cui attori erano troppo grandi e troppo piccoli per recitare insieme.

Le indagini le conducevi tu, chi ero per dirti che stavi nascondendo all’opinione pubblica la maggior parte delle informazioni.

Invece nulla, neanche quella volta, come le altre successive, molte delle quali, quasi tutte, rimasero sconosciute, chi si preoccupa se un adulto va a vivere da un’altra parte senza avvisare nessuno.

Non ho intenzione di tediarti con queste storie, sono troppe, molte non le conosci, e saperle oggi, che non potrai farci più nulla, renderebbe la tua vita ancora più amara.
Ho voglia solo di farti conoscere l’ultima mia impresa, sia detto senza ironia, uso questo termine solo per dire che è stato più difficile delle altre volte.

Non perché io sia invecchiato, certo, l’età è quella che è, fino a pochi anni fa avevo l’entusiasmo e la forza di un trentenne, poi di colpo una mattina ho sentito il peso dei miei quarantotto anni.
Ma ti dicevo, è stato difficile perché ho impiegato molto tempo per rintracciare quell’uomo, nutrivo un sentimento di odio per lui, ne avevo paura, non perché fosse forte o potente, semplicemente perché si nascondeva dietro una veste che nella mia vita ho sempre evitato di incrociare.

Era padre Fabiano, non ti meravigliare, un uomo di Dio.

O meglio, un uomo del diavolo, anche se vestiva sempre di nero, nerissimo e non di rosso. Non ho aspettato che la giustizia umana facesse il suo corso, bastava leggere le testimonianze di decine di ragazzini brutalizzati nei lunghi anni in cui lui era stato preside per capire che bisognava agire prima che fosse troppo tardi.

Che dici? Anche tu hai frequentato quella scuola? Lo sapevo, è per questo che te lo voglio raccontare, ti conosco meglio di quel che pensi.
Lo avevano mandato in un pensionato per religiosi, dopo che ebbe abusato per decenni la vita di poveri innocenti, rovinato le loro esistenze, lo hanno gratificato con una vacanza in montagna. Sarebbe morto senza pagare, con il Supremo non doveva avere problemi, altrimenti ci avrebbe pensato prima.

Dovevo fare presto, l’età avanzata, oltre gli ottanta, ma ciò non mi avrebbe fermato, ci sono mostruosità che non cadono in prescrizione, non lo avrei permesso.
Ho rubato un auto, un gioco da ragazzi, mi sono preso una vacanza, ho così tanti giorni in arretrato, non vado mai da nessuna parte, ho sempre avuto troppo da fare per pensare a divertirmi. Mi sono detto “prima o poi un salto in paese lo farà", ho capito che si faceva accompagnare due o tre volte la settimana per piccole necessità e per frequentare qualche prostituta.

Al termine lo vedevo aspettare l’arrivo della macchina dell’istituto anche mezz’ora, lì in strada, fumando un meritato sigaro dopo le sue imprese.
Un giorno ho deciso che quella era l’occasione giusta. Mi sono avvicinato con la macchina, gli ho chiesto se era lui padre Fabiano, gli ho raccontato che venendo avevo incrociato un’auto in panne, l’autista mi aveva pregato di avvisarlo, mi sono offerto di accompagnarlo.

Durante il tragitto abbiamo parlato di tutto, delle nostre origini, ovviamente ho mentito, lui ha detto che era un insegnante e che molti anni prima era stato a capo di una scuola.

Conosce Pieve Taurina? Certamente, i miei erano di lì vicino, ma poi ci siamo trasferiti in una grande città, non ricordo quasi nulla.
Peccato, mi ha detto, si sta bene, e poi la nostra scuola era molto rinomata, la San Giovanni dei Poveri.

Ci credo, gli ho risposto, magari se continuavo a viverci sarei stato un suo alunno, con molto piacere mi ha risposto.
Ma dove stiamo andando, ha chiesto?
La porto direttamente al suo pensionato, gli ho risposto.

Ma lei come fa a sapere che abito…
Ho accostato l’auto in un’area di sosta isolata e ombreggiata, il primo pugno si è abbattuto sulla sua tempia, il secondo sul naso, rompendolo.

Svenne, dal cassetto tirai fuori della carta, non volevo che imbrattasse l’auto.
Percorrendo strade secondarie, mi ero preparato per bene, abbiamo raggiunto un bosco.

Quando l’ho seppellito sotto gli alberi era ancora vivo, ma non me ne sono curato troppo; ho sperato che si riprendesse presto, gli ho lasciato un poco di spazio in viso, coprendolo con una cassetta di legno, per fare in modo che avesse qualche istante per chiedere perdono per quel che aveva fatto, un tempo breve, prima che il poco ossigeno si consumasse.

Dubito che avesse perso tempo per questo, sarebbe stato troppo occupato a scavare, accelerando la sua morte e la sua liberazione. Quando me ne andai ero felice, ti potrà sembrare esagerato questo termine, ma sappi che l’ho fatto per le decine di sue vittime.

Sì, non lo negare, anche tu hai subìto la stessa sorte degli altri, solo che sei troppo orgoglioso per confessarmelo.
Ti scrivo questa lettera oggi, nel giorno del nostro quarantottesimo compleanno, perché credo che sia ora di chiudere queste nostre storie.

L’ho apprezzato sempre che tu hai portato con te, per tutta la vita, la croce di non essere stato in grado di aiutarmi, ma non potevi, nessuno poteva farci nulla. Potevi esserci tu al mio posto, ma sai bene che anch’io avrei vissuto nel rimorso per non essere stato in grado di aiutarti.

No, non potevi fare nulla, l’uomo che ogni tanto passava con quel furgone giallo mi portò via quel giorno d’estate che giocavamo nel prato di fronte alla nostra casa, quando andai a prendere la bicicletta poggiata alla staccionata; fu un attimo e mi svegliai in una cantina umida e buia. I nostri genitori non c’erano mai, sbarcavano il lunario come potevano, sentii le tue grida quando capisti, forse ci vedesti andar via, forse l’ho solo immaginato, la tua disperazione, la tua paura di raccontarlo ai nostri genitori, le ricerche, l’aiuto che davi ai poliziotti, invano, visto che mi ritrovarono alcune settimane dopo.

Non te ne ho mai fatto una colpa, credimi, non potevi aiutarmi, nessuno poteva farlo, lo capii subito, capii cosa volesse quell’uomo, non glielo permisi.

Ero un ragazzino sveglio, quando tornò per portarmi dell’acqua gli chiesi di sciogliermi un po’ i polsi, lo pregai, lo fece, lasciandomi il nastro sulla bocca. Avevo visto che portava un coltello da caccia alla cintola, gli saltai addosso, fui veloce, lo presi e me lo piantai nel cuore.

Con tutto quel che ti ho raccontato e con quello che so, potresti far riaprire decine di indagini, ma non servirebbe a farmi tornare in vita.

Hai vissuto troppo tempo con me dentro, di questo ti ringrazio, anche per avermi permesso di vivere due vite che hanno corso parallele, e così mi hai vendicato, come potevi, come è stato giusto, io non avrei saputo far meglio.

Prendiamoci per mano ora, per fare questa tratto di strada insieme, facciamolo ancora una volta, come facevamo da piccoli, voglio sentire ancora il calore e la sicurezza che mi davi, un’ultima volta prima di fare quel che è giusto.

Ti voglio bene.


*****

Dall’inferno, 25 Maggio 2015
A Marco, mio fratello
 
Ti voglio bene anch’io, sto arrivando.



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