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ATTO UNICO E FINALE





ATTO UNICO E FINALE



La bambina dell’età apparente di circa dieci anni entra dalla quinta di sinistra, si ferma al centro del palcoscenico, volta le spalle al pubblico. Il fondale è un enorme schermo, composto da altri più piccoli. Sullo stesso scorre un cielo azzurro, con nubi bianchissime. Le quinte sono nere, come il palcoscenico.

BAMBINA: (mentre compie un giro di trecentosessanta gradi su se stessa, fermandosi di nuovo con le spalle al boccascena) E quindi sarebbero queste le nuvole che vedevo da bambina? Accidenti, ora le ricordo, anche se è passato tanto tempo. Ricordo come mi divertivo a trovarci dei disegni che avessero un senso, specialmente volti. I volti, volti di gente conosciuta, o anche sconosciuti che avrei incontrato nel cammino della vita, il vicino di casa, il lattaio, il portiere dello stabile dove vivevo con i miei. Ora che sono adulta è tutto andato perduto, ho perso tutto, quel palazzo non c’è più, non c’è più neanche la stradina, i supermercati hanno preso il posto dei campi dove giocavo con le mie amichette. Avevo una buona dose di fantasia, ora che sono sposata, il lavoro, la casa, i figli, non ho quasi più tempo per sognare, a occhi aperti, perché i sogni della notte, quelli non li vogliamo, ce li manda il cielo o la pietanza troppo pesante che abbiamo mangiato la sera.

BAMBINO: (entrando dalla stessa parte della bambina, si mette tra lei e il fondale) Amore, ma che fai qui?

BAMBINA: Guardo le nuvole, il cielo, aspetto che faccia buio.

BAMBINO: Prendi freddo qui fuori, vieni in casa, è ora di cena.

BAMBINA: No, vai tu, io resto, mi piace questo cielo, sembra lo stesso di quando ero bambina.

BAMBINO: È lo stesso! Il cielo non cambia, rimane quello, è rimasto sempre quello, da quando si è formato per la prima volta, è prigioniero della Terra.

BAMBINA: È prigioniero dei sogni.

BAMBINO: Che dici? Io rientro (il bambino si avvia verso la quinta opposta dalla quale è entrato ed esce).

BAMBINA: Io, io ti sognavo, principe azzurro, apparivi sempre alla congiunzione di quella nuvola a forma di cagnolino e quella che sembrava la macchina dello zio, la Prinz. Là, dove si univano, tu apparivi. Mi facevi l’occhiolino, restavo a fissarti tutto il tempo che eri visibile, e anche quando le nubi si spostavano dando vita al nulla, a uno squarcio di cielo sereno o ad altre facce, io continuavo a vederti (la bambina si volta, guarda in alto, verso il cielo sopra di lei). Oh cielo, mi hai deluso, volevo un principe azzurro e mi hai mandato quell’uomo (indica la quinta da dove è uscito il bambino), volevo diventare principessa, anche di un piccolo regno, e invece nulla, mi hai costretta a diventare una giurista, una che pesa le parole, perché ne conosce il valore intrinseco e palese, che sa che qualsiasi posticipazione, una virgola in più o in meno possono cambiare il significato del detto e sfociare nel non detto, l’immaginato, dando speranze o togliendole, blandendo, spazzando via futili pensieri o certezze radicate e ingannevoli. Io vi odio, cielo, nuvole, infinito (mentre lo dice gira su se stessa con una mano tesa in alto e l’indice a indicare la volta celeste).

MADRE: (è già presente sulla scena quando viene illuminata da un cono di luce azzurra) Tesoro, cosa ci fai qui?

BAMBINA: Mamma, cosa ci fai tu?

MADRE: (la donna ride senza rispondere)

BAMBINA: Mamma, io ho quasi cinquant’anni.

MADRE: Hai sempre avuto una bella fantasia. Ne hai undici fra poco.

BAMBINA: Mamma, che succede?

MADRE: Sono venuta a salvarti.

BAMBINA: Salvarmi da cosa? Da chi?

MADRE: Da te stessa, dalle illusioni e dai sogni che non vedrai mai realizzati.

BAMBINA: Mamma, sono adulta, lo so per aver vissuto, molti non si sono realizzati, ho avuto una vita quasi normale (lo dice sussurrando), come quella di tanti altri, forse meglio di alcuni, non mi posso lamentare, anche se lo faccio sempre.

MADRE: (avvicinandosi alla figlia, la donna si pone di fronte a lei, le accarezza il volto, fa un passo indietro, la luce azzurra si spegne, lei esce dalla scena).

BAMBINA: Mamma, mamma, non te ne andare, dove sei? (la bambina ora è in un letto, accostato alla quinta di destra ricoperta di carta da parati a righe molto grandi bianche e rosa).

MEDICO: Tranquilla, ci sono io (il medico, appare con il padre della bambina entrando dalla quinta opposta, poggia la valigetta su di una sedia collocata in fondo al letto, prende uno stetoscopio e inizia ad auscultarle il petto, poi la schiena). E’ grave (rivolgendosi al padre).

PADRE: Quanto? (il dialogo tra i due prosegue sottovoce).

MEDICO: Molto, è una brutta malattia, dalla fantasite acuta non si guarisce mai.

PADRE: Rimarrà menomata per sempre?

MEDICO: La sensibilità acuta e la fragilità cronica lasciano segni indelebili e visibili. Nella vita di tutti i giorni avrà grandi difficoltà, se ne approfitteranno della sua ingenuità, della sua bontà, spensieratezza, ottimismo, carità.

PADRE: Non c’è nulla da fare, allora?

MEDICO: Una cosa si potrebbe…

PADRE: Mi dica, sono disposto a tutto.

MEDICO: Dovrebbe evitare che entri in contatto con estranei, al massimo un precettore, un prete, delle infermiere.

BAMBINA: (seduta sul letto e rivolgendosi ai due) Un esorcista.

PADRE: Cosa dici?

BAMBINA: Babbo, io non voglio restare chiusa in casa, io voglio andare in giro, vedere il mondo, sposarmi, anzi no, lo sono già, studiare, scrivere poesie, libri, combattere, vivere insomma…

PADRE: Tesoro, quando sarai grande potrai fare quel che vuoi… Ora devi curarti.

MEDICO: Sì, è meglio che tu stia in casa, fuori è pieno di pericoli.

BAMBINA: L’unico pericolo che vedo, che ho imparato a conoscere, è quello di non vivere. Babbo, sono grande, conosco la vita, anche meglio di te, da quando te ne sei andato, avevo solo tredici anni, ho combattuto, insieme alla mamma, eravamo sole, io e lei, non ci siamo perdute, anche se io continuavo a guardare il cielo, sperando di scorgere il tuo volto, lo vedevo, ti vedevo, mi sentivo protetta, incoraggiata, spronata, guidata, ti chiedevo consiglio, tu con la testa mi dicevi sì o no, allora sapevo se potevo osare.

PADRE: Sta delirando Dottore?

MEDICO: No, caro il mio signore, sta crescendo, forse è cresciuta, sta facendo i suoi errori, si corregge, un momento è una bimba, l’altro è adulta…

BAMBINA: (rivolgendosi ai due uomini) Io sono adulta, lo volete capire, sono solo prigioniera di un corpo infantile (lo urla).

MEDICO: Sta delirando.

PADRE: Lo dicevo io…

BAMBINA: (ai due si aggiunge la mamma, riapparsa da un cono di luce, la bambina è coperta dai tre) Ascoltate, voi siete morti da tempo, troppo, non sapete nulla, non sapete nulla della mia vita, di quello che ho patito, delle lotte per diventare grande e poi di nuovo bambina, come mi vedete ora; significa che sono riuscita ad avere una vita normale, a fare in modo che le cose non mi ferissero sempre, quelle negative, le persone cattive, quelle indifferenti, o forse no, non ci sono riuscita, altrimenti sarei rimasta piccola, o grande, a seconda di quel che vogliamo significare. Ora sono un’adulta imprigionata, una persona che ancora crede che gli altri quando dicono bianco sia bianco o nero sia nero. Che se fanno una promessa la mantengono, costi quel che costi, in fondo non gliel’abbiamo estorta, che non hanno pensieri cattivi, retropensieri, che se ti vogliono bene non ti feriscono, che se cadi ti raccolgono. E invece voi dov’eravate quando io ero in terra, dov’eravate quando non riuscivo ad alzarmi, a rialzarmi, quando precipitavo nel vuoto, annaspando nell’aria, come se affogassi, come se mi fossi lanciata dalla luna, da quelle nubi che avevano le vostre sembianze, quelle di tutte le persone che ho conosciuto poi, anche di quelli che mi hanno spinto giù. Dov’eravate voi?

PADRE, MADRE E MEDICO: (in coro) Povera fanciulla, così sfortunata.

BAMBINO: (entra dalla quinta di sinistra il bambino, si unisce agli altri, ora la bambina si alza e viene circondata dai quattro) Povera fanciulla, io ho provato a farla desistere, lei era ferma nei suoi propositi, diceva sempre che la vita ormai non aveva più senso, che tutti l’avevano delusa, abbandonata, mentre io ero lì, non sono mai stato più lontano di qualche passo da lei.

PADRE, MADRE, MEDICO E BAMBINO: (in coro) Povera fanciulla, così sfortunata e infelice.

BAMBINA: Sfortunata, infelice, cosa state dicendo? Io ero felice nonostante mi abbiate tenuto nella bambagia, proibito di crescere, di uscire, di incontrare gente, sia da piccola sia dopo il matrimonio, siete stati i miei carcerieri, i miei aguzzini, ma io avevo quei volti che mi proteggevano, e non erano i vostri, erano quelli di gente sconosciuta che mi era solidale, amici che io ho amato e loro me, gente con cui parlavo in continuazione, che mi davano retta, ed io seguivo i loro consigli.

PADRE, MADRE, MEDICO E BAMBINO: (in coro) Povera fanciulla, così sfortunata, infelice e mal consigliata.

BAMBINA: Quale mal consigliata, quelle persone sapevano esattamente cosa volevo, di cosa avevo bisogno. Sempre, in ogni momento, erano con me, mi volevano bene, sono state sempre con me, le ho viste accompagnarmi, sollevarmi quando sono caduta con il viso in terra, le vedevo lassù, che volevano sorreggermi, anche se non ce l’hanno fatta, se avessero potuto avrebbero allungato le braccia, per afferrarmi.

BAMBINO: Io ho allungato le braccia, le ho protese verso di te, per tentare un ultimo abbraccio, per salvarti, per riportare in te quella vita che ti era venuta a mancare.

BAMBINA: Ho sentito le tue mani afferrare le mie braccia, poi le spalle, fortemente, come non avevi mai fatto, in quel momento ho pianto, non te ne sarai accorto. Finalmente, mi sono detta, qualcuno che mi impedisce di farmi male, qualcuno di vero, non quei fantasmi che girano tra le nubi e la mia testa. Mentre cadevo da quella terrazza ho rivisto di nuovo tutti i fantasmi che hanno popolato la mia vita, mentre cadevo dimenticavo i volti delle persone reali, di voi Padre e Madre, di te mio marito, di tutti voi, tutti i medici del mondo e gli infermieri che sapevano solo deridermi con quell’enorme siringa in mano, con quel medicinale capace solo di aumentare le mie visioni. Sì, signori, voi volevate combattere le mie visioni, invece le avete aumentate.

PADRE, MADRE, BAMBINO E MEDICO: (in coro) Povera fanciulla, così sfortunata, infelice, mal consigliata e visionaria.

BAMBINA: Eravate tutti d’accordo (la bambina avanza, raggiunge il centro della scena passando tra gli altri presenti che si voltano verso il fondale), volevate farmi vivere per sempre in quel mondo falso, poi quando finalmente io, io, mi ci trovavo bene, allora avete deciso che me ne dovevo liberare, lo avete fatto senza chiedermi il permesso, come sempre. Ma io ero fuggita, sul tetto, ero lì a parlare con quei volti, gli ultimi amici rimasti, i soli, e poi quelle mani, le stesse mani che mi hanno fatto piangere di gioia, hanno fatto qualcosa che non mi aspettavo, mi hanno spinta, forse per porre fine alle mie sofferenze, forse solo per egoismo, per entrambe le ragioni, per tutte le ragioni del mondo, e io che prima di finire la corsa ho fatto solo in tempo a pensare che non importa da quanto alto cadi, l’importante è sempre proteggere ciò che si è sognato.

SIPARIO


STHEPEZZ

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