SIGNOR GIUDICE, NON MI GIUDICHI
Signor
giudice, non mi giudichi.
No,
non intendevo dire che lei non debba fare il suo lavoro.
Ascolti,
a volte le cose non sono come appaiono.
Sì,
è vero, l’ho ucciso, non negherò, mai mi pentirò d’averlo fatto.
L’ho
amato, l’ho amato da morire; però per morire intendevo d’amore.
E
invece è morto lui, anzi, l’ho ucciso, con queste mani.
Queste
mani che lo hanno curato, accudito, accarezzato ed eccitato.
Le
stesse mani lo hanno trafitto.
Signor
giudice, non mi giudichi.
No,
non è per i continui tradimenti, in fondo neanche io sono stata una santa.
Non
ce lo eravamo mai detto, ma ognuno poteva prendersi lo spazio che voleva.
Tanto
poi saremmo tornati sempre nelle braccia dell’altro.
Amandoci
e perdonandoci, tra un amplesso e l’altro.
Guardandoci
durante la preparazione della colazione.
Quello era il nostro modo di volerci bene, ripetere i gesti quotidiani.
Sempre
con la stessa cura e attenzione come li eseguimmo la prima volta.
Signor
giudice, non mi giudichi.
No,
non è stato perché lei ci ha separati, ha fatto bene.
Ho
commesso dei reati, era giusto starmene in prigione.
Solo
che lui in tutto questo tempo ha dimenticato, non me.
Ha
dimenticato come prendersi cura di me.
E come
quei gesti semplici rendessero il nostro amore certo.
Non
era mai successo che facesse carbonizzare le fette di pane.
E
che dimenticasse di farmi trovare il burro.
Signor giudice, non mi giudichi.
Mi condanni.
Signor giudice, non mi giudichi.
Mi condanni.
STHEPEZZ
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