Austerity e Smemoratezza
A cavallo tra il 1973 e 1974, come
in molti altri paesi del mondo, a causa della chiusura del Canale di Suez in
seguito al conflitto arabo-israeliano, all’aumento delle royalties sui prodotti
petroliferi, anche in Italia fu varata una stretta sui consumi direttamente
legati al petrolio e affini che si ripercosse indirettamente sui beni che in
qualche maniera erano legati ai combustibili (aumento del costo dei
trasporti, delle merci che viaggiavano prevalentemente su gomma, ecc.).
Tra le misure pratiche, per noi
bambini, c’erano le trasmissioni televisive, i cinema e i ristoranti che interrompevano l’attività prima del solito, le
insegne e l’illuminazione pubblica che dovevano consumare di meno, mentre, più
in generale, fu consigliato di coibentare le case (non si sono inventati nulla
con il Bonus 110) e altre misure tese a risparmiare energia.
Però c’era una misura che a noi
bambini piaceva molto. La domenica non si poteva circolare con le auto. Il
divieto valeva per tutti, compreso il Presidente della Repubblica e i Ministri,
figurarsi per gli altri, e veniva rispettato. Potevano viaggiare solamente i
mezzi di soccorso e i veicoli con targa militare. Rarissimi i casi di persone
che infrangevano il divieto, tanto che ne parlavano nei telegiornali (paragonandoli a pazzi criminali).
Ricordo le strade piene di
bambini che giocavano a pallone, che andavano in bicicletta anche con i
genitori, giochi di ogni genere (nascondino e campana) dove il giorno prima
sfrecciavano le auto, gli adulti passeggiare tranquilli, le partite a carte
ovunque, su tavoli improvvisati, gente che tirava fuori sdraie e ombrelloni,
quest’ultimi piantati sulle aiuole spartitraffico, uomini che giocavano a bocce
in traverse meno piene di gente che passeggiava, donne sedute che facevano la
maglia e chiacchieravano, magari solo a cinquanta metri da casa, ma al centro
della carreggiata.
E ricordo bene una frase che
dicevano gli adulti “possa la benzina arrivare a mille lire al litro”; passò da
300 lire al litro a 500 (rapportato a oggi più o meno quanto la stiamo pagando).
Era il loro modo di protestare contro l’aumento, mostrando un certo distacco
sulla questione ma indignandosi di fatto per dover subire un salasso nei giorni
in cui avrebbero usato l’auto.
Durò circa sette mesi, poi i
provvedimenti furono attenuati e infine scomparvero.
Era abitudine della mia famiglia
andare a trovare la nonna in Maremma, nel podere avito, ogni mese massimo due.
In fondo erano poco più di due ore di viaggio. Normalmente partivamo la domenica
mattina per tornare la sera. Un bel pranzo con i numerosi zii, una barcata di
cugini e amici vari, tutti sotto il portico gigantesco della casa in campagna.
Ovviamente chi dirigeva il tutto era la nonna, piccola, minuta e con i suoi
splendidi occhi azzurri (anche nonno li aveva) che tutti i figli e buona parte
dei nipoti avevano ereditato (anche io).
Ovviamente non si poteva più
viaggiare di domenica; quindi si decise per quel periodo che saremmo andati il
sabato sera e tornati il lunedì all’alba, in tempo affinché io potessi andare a
scuola (a volte lo facevamo già di tornare il lunedì mattina, io continuavo a dormire
in auto, un salto a casa per lavarsi e vestirsi e poi a scuola).
Era febbraio del 1974, partimmo il sabato dopo cena, circa alle ventuno, tanto in un paio d’ore saremmo arrivati, ben prima della mezzanotte. Sull’autostrada verso Fiumicino iniziarono i primi problemi, di quella che sarebbe passata alla storia della famiglia come la giornata più lunga, una specie di D-Day o meglio M-Day, ma con il tempo imparammo a scherzarci su.
Una nebbiolina iniziò a salire, sempre più fitta, fino a diventare una coltre quasi impenetrabile. La
visibilità, considerato che era anche notte, era praticamente nulla; mio padre
guidava con gli occhi incollati alla riga di mezzeria, io e mia madre segnalavamo
le auto (cercando di scorgere i fanali posteriori e quelli anteriori) che ci
precedevano o seguivano.
Poi mia madre disse di sentire
caldo ai piedi, mio padre le rispose che ovviamente era il riscaldamento
(all’epoca si chiamava così l’antenato del condizionatore delle auto moderne).
Lei replicò che vedeva del fumo salire. Mio padre iniziò a preoccuparsi, ma
fortunatamente mancavano pochi chilometri al casello, pagammo e ci accostammo.
Alcuni gentili “casellanti” ci aiutarono con delle torce a individuare il
problema. Era una cosa semplice, si era bucato un tubicino di plastica che
portava l’acqua in circolo, proprio all’altezza delle gambe di mia madre. Per
evitare di viaggiare con i piedi a mollo (si era formata una discreta pozza
d’acqua), mia madre si trasferì sul sedile posteriore al mio fianco.
Bastò spegnere il riscaldamento e
dopo un po’ nessuna perdita né fumo.
Avevamo perso del tempo,
mio padre era nervoso e concentrato nella guida per recuperare il tempo perduto;
pensammo di fermarci a un punto di ristoro sull’Aurelia (anche oggi quando ci
passo non posso fare a meno di provare un misto di rabbia e divertimento) per
telefonare agli zii e dirgli che saremmo arrivati con un po’ di ritardo ma
sempre prima della mezzanotte.
Scendemmo io e mio padre, ci
dirigemmo verso il telefono a gettoni nell’antibagno, mio padre chiamò e poi
andammo in bagno. Io feci prima, allora uscii e vidi mia madre che passeggiava
sul marciapiede e sbirciava lo shop del benzinaio. La raggiunsi e commentammo
alcuni articoli in vetrina.
Mi girai e vidi mio padre uscire
dal locale, saltare in auto, accendere il motore; io dissi a mia madre di
affrettarsi. Poi la macchina partì, quasi sgommando. Mia madre mi guardò e mi
chiese dove stesse andando senza di noi, io le risposi a provare la macchina
(che bisogno c’era?), poi quando schizzò verso l’Aurelia, tagliandola e
prendendo la direzione di casa di mia nonna, iniziai ad avere qualche dubbio.
Cercai di tranquillizzare mia madre, la sta provando su strada, ora torna, un
minuto, due, cinque, dieci, un quarto d’ora, venti minuti.
Dopo mezz’ora vedemmo la nostra
auto rientrare alla stazione di servizio, mio padre stava morendo dalle risate
(l’incazzatura per quanto successo prima gli era passata), non riusciva a
parlare dal tanto ridere. Mia madre muta. Ci spiegò che era sicuro che fossimo in auto, poi dopo dieci minuti ci chiese che ora fosse per capire se la tabella
di marcia sarebbe stata rispettata e all’ennesima mancata risposta aveva
guardato lo specchietto retrovisore, direzionandolo verso i sedili posteriori,
e poi si era girato, capendo di averci lasciato a piedi.
Questa storia viene ancora
raccontata dagli zii superstiti e dai cugini da ormai circa cinquant’anni.
Il viaggio proseguì senza intoppi
fino a destinazione (arrivammo prima della mezzanotte), tra le risate di mio
padre e il mutismo di mia madre. Che durò almeno un mese (so da chi ho preso)
durante il quale rispondeva a mio padre solo a monosillabi.
Mi fanno ridere i servizi al
telegiornale di persone dimenticate sull’autostrada, io sono stato un
antesignano.
Oggi ci rido, all’epoca la presi come un gioco o almeno una cosa tutto sommato divertente. Ma raccontarla agli
amici non era proprio il caso.
STHEPEZZ
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