Per non dimenticare mai
Oggi ho fatto una cazzata, bella
grande.
Me ne andavo in giro per Roma, dirigendomi verso il Ghetto. Volevo fare qualche foto al Portico di Ottavia (https://it.wikipedia.org/wiki/Portico_di_Ottavia) per finire poi alla pasticceria kosher dove fanno dolci introvabili altrove e deliziosi.
Mi sono ritrovato davanti al
Museo della Shoah, senza rendermene conto. Due Carabinieri in congedo escono e
mi informano che avrebbero aperto di lì a venti minuti. Gli dico che ero
passato per caso, ma che senz’altro, vista la loro gentilezza, sarei venuto.
Oggi, domani, chissà...
Ripassando dopo un giro di foto
al Teatro Marcello, vedo uno dei due che sta aprendo il cancello e che,
riconoscendomi, mi fa un cenno di saluto. Non ci penso un attimo, entro.
Dopo cinque minuti di
introduzione, mi avvio per il percorso. Foto, documenti e video sulle pareti,
divisi per periodi storici, dal 1933, quando in Germania decisero che gli ebrei
erano un problema (500.000 su oltre 66 milioni di abitanti, pari allo 0,76%, ma
si sa, per certi “gli altri” sono sempre troppi, se superano lo 0%), fino ai
processi al termine della II Guerra Mondiale.
Siamo abituati, sempre per chi un
poco se n’è interessato, a vedere immagini, film, foto della Shoah, spesso anche
particolarmente crudeli.
Ma quel che c’era lì non lo avevo
mai visto; la maggior parte della documentazione proviene dagli archivi
polacchi.
Ciò che mi ha colpito di più,
oltre alle scene inevitabili di persone portate via dalle camere a gas e poi
seppellite per essere successivamente bruciate non solo nei forni crematori ma
anche su binari messi a mo’ di barbecue in zone nascoste dei campi (in tre mesi
del 1942 hanno eliminato la maggior parte degli ebrei, criminali, omosessuali e
zingari che dall’inizio della pulizia al termine della Guerra) sono state le
scene quotidiane nel ghetto di Varsavia.
Signori apparentemente normali
con manganelli in mano, spostavano, picchiano senza ragione uomini, donne,
anziani intenti a camminare e a fare la spesa, quella poca che riuscivano a
fare sia per la scarsità di cibo che per la povertà imperante.
Bimbi denutriti e ormai vestiti
di stracci che cadevano sfiniti in mezzo alla strada e altri che cercavano di
tirarli su, sotto lo sguardo accigliato e impaziente di guardiani vestiti simil-Gestapo.
Una bambina seduta sul marciapiedi (foto sotto al titolo) e con le spalle al muro ha sulle gambe un bambino, un po’ più piccolo di
lei. Il secondo è morto o agonizzante e la prima tende il braccio come a volergli chiuderle sul collo la giacchina troppo corta che indossa. Come a ripararlo dal
freddo, a proteggerlo da chissà cosa, da qualcosa che invece è già avvenuto o
sta per arrivare a breve. Tutto questo, mentre lo sguardo smarrito, allucinato,
svia quello del fotografo e si incrocia con qualche passante fuori scena o
forse con il nulla che presagisce avrebbe accolto anche lei, a breve.
Un’altra immagine mi ha colpito
fortemente, era un video sulla quotidianità di Varsavia, tra vecchi che
mangiavano la scarsa razione quotidiana da gamelle vecchie e arrugginite, bambini che si trascinavano per le strade, donne che vorrebbero entrare nei negozi e persone in fila per il cibo. Verso
la fine del filmato si vedono moltissime persone di razza ebraica riconoscibile per via della stella di David al braccio, ammassate dai soliti solerti aguzzini
probabilmente polacchi come loro, che a suon di manganellate assestate
indiscriminatamente e senza motivo cercavano di mandar via quel numeroso
gruppo. Una giovane donna, elegantemente vestita, viene strattonata per il
braccio e spinta via; lei dopo essere arrivata a ridosso delle ultime persone
della fila, si gira e con un viso adirato accenna a un gesto di protesta nei confronti
dell’aguzzino.
La scena s’interrompe qui, il
filmato ricomincia dall’inizio, e io con la lacrima all’angolo dell’occhio mi
chiedevo chi fosse stata quella donna che non aveva perduto la dignità, la
rabbia contro le ingiustizie, se avesse poi partecipato alla rivolta di
Varsavia, se fosse stata una delle numerose persone che imbracciando un fucile
o impugnando una pistola si fosse ribellata ai nazisti. O se invece fosse morta
di malattia, di stenti, in qualche campo di sterminio o se fosse sopravvissuta.
È quello che voglio pensare, nonna di bimbi felici ai quali non ha mai
raccontato cosa ha vissuto ma solo insegnato valori come la libertà, l’eguaglianza
e il rispetto per il prossimo.
Il Carabiniere vedendomi uscire mi ha
chiesto se ero diventato muto. Gli ho risposto di sì, è stato un colpo allo
stomaco imprevisto.
Poi mi sono
accorto che c’erano altri due piani, probabilmente volevo gettarmi in quella parte di Roma che ha radici così antiche che ti toglie ogni amarezza, forse volevo respirare l'aria fina che c'era in quella zona quasi priva di auto, vedere il cielo meraviglioso che oggi ci proteggeva. Volevo scappare da tanta brutalità racchiusa sia nell'animo di alcuni sia in quella meravigliosa palazzina antica.
Il volontario mi ha detto che sopra c’erano delle mostre interattive. Ho
promesso che sarei tornato. E così farò. Nutrirsi della storia, specialmente delle
parti orribili è un vaccino affinché certe cose non si ripetano.
Mi ha fatto male questa deviazione dei miei progetti odierni, ma ora sapendolo, non mi sarei mai perdonato di essere passato lì davanti senza entrare.
STHEPEZZ
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